giovedì 14 gennaio 2010

Lo sbarco in Lombardia

E' stato peggio del D-Day.
Il dispiegamento di forze è stato titanico (molti più scatoloni di libri, molte più piastrine di Vape e molti più tubetti di acrilico), anche se per ragioni di logistica si è dovuto rinunciare all'impiego di mezzi anfibi all'Idroscalo.
Mio padre era un Eisenhower in mocassini.

La cosa più drammatica sono state le pulizie in cantina.
Sotto la direzione della mia beneamata consanguinea Elena Spagnolo, classe 1928, di professione ascoltatrice di Radio 24 alle 2 di notte.
A volume alto.
Con le porte aperte.
Ma questa è un'altra questione.

Il fatto è che sono passati 3 mesi esatti da quel giorno.
Il trasloco.
E che diamine.
Dalla più feroce e idilliaca Inculandia emiliana ai cieli fosforosi di Pioltello, che di notte sono appunto arancioni e le stelle sono solo quelle comete di lampadine ancora accese ai balconi dei miei vicini calabresi.
Odio questo posto come non ho mai odiato un posto (anzi si, un cesso veramente lurido in Repubblica Ceca ha suscitato in me sentimenti assai affini).
Odio l'odore di freni di treno fritti, odio l'umidità perenne, odio la mancanza di posto tra un posto e l'altro, che poi è un unico posto grigio topo il cui nome finisce immancabilmente in -ate.
Fanno eccezione Cernusco sul Naviglio e altri pochi eletti.
Non che questo li renda posti più accettabili, comunque.
L'unica frazione accettabile di questo continuum dall'accento brianzolo è il mio letto, in cui per altro trascorro tutto il tempo che posso (pochissimo).
Mi mancano i campi collosi di argilla arata, il torrente ghiacciato, il mio cortile di ghiaia non troppo fine, la caccia ai bulbi di iris.
Gli stampini di silicone per i muffins.
Mio fratello, più di tutto il resto.
Un divano sontuosamente comodo, Sky Sport, una onesta latta di Guinness.
Il pavimento di cotto sghembo.

Che schifo.

Non ci resta che aspettare i rinforzi, e tenere duro.


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